Spesso, chiacchierando con le persone di cui mi prendo cura, capita che io accosti in maniera ingenua e poco ricercata la coltivazione di un qualche ortaggio o di una qualche pianta alla relazione educativa.
Mi sento spesso ripetere “Prendersi cura delle piante non è così distante dal prendersi cura delle persone”. Lo butto lì, come se fosse qualcosa di scontato, come fosse una qualche verità da cioccolatino, mentre strappo le erbacce, poto le piante di mirtilli o raccolgo more di gelso e fichi assieme a qualcuno dei miei utenti.
In realtà non è così scontato e non è così ingenuo. Sono profondamente convinto che sia così. Che esista una sottile linea di continuità che unisca il “caregiver per esseri umani” ed il “caregiver per esseri vegetali”. Questa liaison risiede proprio nel “prendersi cura”, così distante e distinta dal “curare” inteso come “guarire”.
Prendersi cura, credo significhi prima di tutto avere il desiderio che l’oggetto (soggetto!) della cura cresca, si evolva: che possa cambiare secondo una natura intrinseca e specifica.
Credo, poi, che significhi dotarsi (e dotarlo) di tutti gli strumenti che possano indirizzare questa crescita senza sottrarla agli eventi traumatici, ma sostenendola e supportandola nelle avversità, rispettando e avendo fiducia nei suoi tempi.
Credo, infine, che “prendersi cura” significhi sognare i frutti.
Esattamente come quando pianti un albero di fichi e non sai bene se, quando e come questi fichi saranno, ma immagini già di vederli scaldare al sole e riesci a pregustarne il sapore mielato.