Esperienze per uno sviluppo accurato della Persona e delle Relazioni

Tag: adolescenti

Pedagogia e Comunità, intervista su Instagram

Grazie ad una preziosa collega, abbiamo messo insieme una chiacchierata di circa 30 minuti sull’essere educatore socio-pedagogico in contesto comunitario.

Se volete qualche spunto di riflessione sullo “stare con”, sull’importanza di una buona supervisione, sulle fatiche emozionali e relazionali che un operatore di comunità è chiamato ad affrontare: ascoltate l’intervista e lasciatevi ispirare.

Resto a disposizione per qualsiasi chiarimento e supporto.

L’intervista su Instagram la trovate a questo indirizzo.

Grazie!

Occhio non vede, cuore non duole? Pedagogista ascolta.

Il Pedagogista è esperto in gestione relazionale ed in gestione emozionale. Fornisce supporto al dialogo famigliare, supporto genitoriale e supporto allo sviluppo della persona.

Per questo ha facoltà di intervenire, con la delicatezza e la decisione necessarie, in quelle situazioni che restano taciute, nascoste, volutamente mal viste in molte famiglie, nella convinzione che sia vero il detto “occhio non vede, cuore non duole” – rischiando invece di accumulare tensioni e sofferenze.

Lo fa attraverso una serie di colloqui mirati, in studio, a domicilio oppure online, con i singoli o in gruppo e, nei casi opportuni, realizzando interventi educativi ad hoc: esperienze da costruirsi e realizzarsi insieme per prendersi cura delle parti fragili e crescere in modo accurato.

Lo fa, ad esempio, in casi di comportamenti a rischio, dipendenze, ritiro sociale, autolesionismo, aggressività subita o violenza assistita, bullismo, problematiche nella gestione della rabbia, situazioni di iperattività, perdita motivazionale, disorientamento nella scelta formativa, fragilità genitoriali, difficile gestione del rapporto tra fratelli e sorelle, difficoltà nella coppia genitoriale, crisi famigliari.

La via pedagogica ed educativa offre un valido sostegno a chi, con delicatezza, non vuole più girare lo sguardo altrove.

Affidabile? Responsabile? Sì, Credici…

“Mio figlio mi dice di sì e poi fa quello che vuole: Metti a posto la stanza… Studia… Rientra per le cinque… Dice sempre sì, e poi la stanza è sempre uno schifo… passa le ore a guardare i tutorial… rientra quando vuole!”

Quante ci troviamo a rivolgere ad amici e parenti questa lamentela, credendo che il tema sia il mancato rispetto del nostro ruolo genitoriale da parte di un figlio strafottente e viziato?

Le dinamiche nascoste dietro a questo sfogo possono essere disparate e molto complesse. La prospettiva pedagogica ci invita ad una riflessione focalizzata sulla relazione: è necessario, ad un certo punto del nostro sviluppo come gruppo famiglia, generare situazioni che accrescano il livello di affidabilità reciproca e la quota di responsabilità in capo ad ognuno.

In una relazione, si è affidabili quando si tiene un comportamento che dà alla controparte un margine di sicurezza sulla nostra capacità di soddisfare richieste o situazioni simili nel tempo.

Allo stesso modo, in quella relazione potrò dire di essere responsabile se, davanti ad una certa situazione, saprò valutare e considerare le conseguenze delle mie azioni sulla relazione e sulle persone coinvolte – e rispondere in coscienza.

Il momento più critico per parlare di affidabilità e di responsabilità è quello dell’adolescenza, in cui la persona in crescita ridiscute e contesta limiti e relazioni, per verificarne la tenuta e i contenuti.

Da che età è bene iniziare a parlare di affidabilità e responsabilità con i proprio figli? Quanto abbiamo già lavorato con i nostri figli e le nostre figlie su questi aspetti, nelle diverse fasi di crescita?

Quanto abbiamo bisogno di lavorare sulla nostra affidabilità e responsabilità di genitori? Quanto e come siamo disposti a sperimentarci e a sperimentare situazioni che ci allenino ad uno stile relazionale famigliare affidabile e responsabile, creando un’alleanza in questa direzione?

Lo scudo molle

Tratto da DUNE di Frank Herbert, Fanucci Editore, p. 367.

Una delle trovate fantascientifiche che più mi hanno intrigato nella lettura dell’opera di Herbert è sicuramente quella dello “scudo laser portatile”: un aggeggio da portarsi al polso o alla cintura, in grado di creare un campo di forza ideato per respingere e rallentare gli attacchi veloci e aggressivi.

Lo stile di lotta ideato per passare le difese di chi indossava uno scudo si concentrava su movimenti fluidi e suadenti, che permettevano alla lama di affondare lentamente nella difesa per arrivare al corpo dell’avversario.

Quante volte, in questi anni, ci siamo interrogati davanti a quegli adolescenti che sembravano indossare uno “scudo molle”, fatto di indifferenza millantata e strafottenza impenetrabile: contro le quali alzare la voce, imporre limiti ed elargire punizioni sembravano in tutto e per tutto come quegli “attacchi troppo veloci” deflessi dallo scudo di Paul Atreides!

Uno scudo che non può essere semplicemente “spento”, perché formatosi a difesa di una sensibilità troppo elevata, troppo accesa, troppo scoperta… fondamentalmente insicura. Allora meglio fingere (e crederci) che non puoi toccarmi. Allora meglio ributtarti indietro l’inutilità e l’ansia delle tue regole. Allora meglio deflettere le tue aggressioni e i tuoi giudizi spegnendoli in un lento affogare di silenzi e sguardi mancanti.

Quale strategia evolutiva possiamo offrire? Quali strumenti educativi possiamo usare davanti a questi “scudi molli”, se vogliamo stimolare una relazione che vada al di là delle difese, stimolando e recuperando la sensibilità emotiva dei portatori senza abusarne o ferirla? Quali passaggi, se vogliamo costruire una quotidianità funzionale e proiettata verso un prossimo futuro accettabile e fiducioso?

Ad ognuno una lettura pedagogica. Ad ognuno uno sguardo sul proprio paesaggio relazionale. Ad ognuno una nuova prospettiva.